Da qualche anno ormai, forse da più di una decina, sono appassionata di Pinot Nero, e non nel periodo migliore del secolo, anzi, nemmeno del secolo precedente, da quando il clima non è più costante e le temperature sono irrimediabilmente salite.
Questo cépage delicato e ribelle, programmatico lettore ed interprete di terroir, menefreghista dove non è nei suoi panni, e grande attore dove suolo e clima glie ne danno atto, ha continuato, nei secoli, a trasformarsi ed adattarsi: detesto l’espressione resilienza, un po’ come tutti noi ultimamente, ma il Pinot, dimostrandone a bizzeffe, nonostante i gloriosi ricordi d’antan, anche oggi, in Italia, in alcuni, microscopici luoghi e situazioni, si esprime a livelli degni del suo nome.
Non siamo certo in Borgogna, e nemmeno a Mazzon, qui, in Oltrepò, dove vi sto portando, anzi, se ne son viste ultimamente, tra scandali e poco rigore, e pure, lontani dai fasti dei vecchi La Versa, Pernice o Frecciarossa, qualcosa è rimasto, e vale la pena di riscoprirlo.
Stefano Milanesi è uno che il Pinot Nero è abbastanza matto per amarlo, e lo trasmette: siamo sulle colline di Santa Giuletta, clivi di viti longeve, mediamente 25 anni, suolo duro e compatto di argille e limo, ricco di fossili marini, qualche traccia di gesso. Una scommessa, insomma.
Salgo in un pomeriggio, il tempo è poco, le visite fitte, Stefano è ormai un nome tra i nuovi artigiani del vino naturale, ma tanto mi basta: so che troverò nella bottiglia quello che ha da raccontarmi, sperando di poter, alla fine di questo sfacelo, tornare in visita per esplorare altre meraviglie.
Il suo Pinot ha diverse vite: vinificato in rosso, ma anche fine bollicina metodo classico. Quest’ultima espressione, sul posto, è quella che mi cattura. Imbottigliata con il nome di Vesna, “primavera” in russo, non può che essere mia: assaggio un 2013 Nature sboccato a Dicembre 2020, fine, cesellato e preciso, dai fiori bianchi ai frutti rossi aspri, all’agrume, che mi conquista, come non mi succedeva da un po’ con un metodo classico italico. Stefano si occupa in prima persona di tutte le fasi di vinificazione, e tutto, tirage, coup de poignet, remuage e dégorgement, è rigorosamente manuale. La data di sboccatura viene sempre indicata a mano in etichetta: improvvisamente mi sento proiettata in un universo che credevo perduto in Italia, esistente ormai solo in terra francese. Tanto che, alla domanda “per caso rifermenti in magnum” ed alla risposta affermativa di Stefano, quasi non credo alle mie orecchie.
Perciò la bottiglia di cui vi parlerò qui non può che essere considerata un hapax, e, forse, la dimensione in cui meglio si esprime il Pinot Nero metodo classico in generale, ancor più il Pinot d’Oltrepò, che sfida condizioni pedoclimatiche a lui inusuali: una dimensione che lo lascia correre e allargarsi, in cui aspettarlo è assolutamente dovuto, quella della bottiglia grande.
Pinot Nero Vesna Nature, Magnum, 2010, sbocc. Gennaio 2021 (eh si, 10 anni sui lieviti!)
Decido di aprire il bambinone in questione in una serata speciale: bottiglia non freddissima, temperatura intorno ai 10°, per godere meglio da subito di tutte le sfumature, lasciando comunque spazio ad un po’ di evoluzione. Scegliamo opportunamente bicchieri ampi, da vino rosso strutturato.
Tappo perfetto, apertura agile: versato nel bicchiere è oro carico, quasi barocco, con qualche pennellata di rame, luminosissimo. Il perlage è molto fine e centrale, elegante e persistente.
Dal calice i profumi che salgono per primi sono quelli sottili del lievito, seguiti da una nota insieme acida e cremosa, come di torta di fragole e pastafrolla, e poi da una sensazione fresca, non esattamente balsamica, ma direi erbacea, di bosco dopo la pioggia.
Il sorso è sapido e dolce insieme: una combo assassina, che ne chiama velocemente un secondo. Stefano, come pochi altri vigneron che fanno metodo classico, è convinto sostenitore della vinificazione delle sole uve che hanno raggiunto la piena maturità. Solo così il suo Pinot esprime veramente l’essenza del terroir, insieme di annata, terreno, clima e fattore umano.
In bocca ritrovo ancora l’acidità di lamponi e fragoline, la dolcezza aspra della crema al limone ma anche la poderosa sferzata di sale e di erbe del bosco che il naso aveva solo anticipato e che, nonostante la dimensione, ci fa prosciugare la bottigliona in un’ora o poco più. L’evoluzione concessa da questo confortevole vascello accentua la gran cremosità e dolcezza già figlie di un’annata calda e asciutta.
All’aumento graduale di temperatura, le note sapide si sono man mano fatte largo, facendogli guadagnare rinnovata freschezza e bevibilità: in bocca, alla fine, ci è rimasta una lunga, bizzarra e piacevolissima persistenza, insieme salata e dolce, che ci fa ha fatto desiderare, se ce ne fosse stato, ancora un altro calice.
Un vino incredibile, che ha accompagnato, agile come un ragazzino, nonostante il suo apparentemente ingombrante decennio di complessità, dall’antipasto di salumi e pane casereccio, al piatto principale di trippa alla parmigiana, come un equilibrista in bilico su una fune di sorsi, bocconi e racconti, perfettamente a suo agio, come succede solo ai grandi, anche a far da velluto a tutto il resto, con grande naturalezza.
Stefano Milanesi è uno dei piccoli tesori dell’Oltrepò che ho la fortuna di potervi raccontare, e spero presto di potervi portare ancora con me: nel frattempo, per chi ne avesse curiosità, Vesna è disponibile per la vendita, oltre che presso la sua Azienda Agricola a Santa Giuletta (PV), anche su qualche canale on line, ma consiglio vivamente, non appena potrete, la visita in cantina, per l’accoglienza, la grande disponibilità di Stefano e soprattutto per comprendere davvero l’anima delle sue magnifiche ed inusuali creature.
GRAZIE!!
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Come sempre
“racconto”illuminante.
Ho avuto la sensazione di bere con voi.
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