Castelvetro è divenuta ormai la sosta mentale e fisica dei miei vagabondaggi estivi in cerca di vino vero: crocevia e sutura di territori matildici e ducali, dolce teoria di colline e castelli che narra continuità ed ispira vite, come quella del vignaiolo Max Brondolo e del suo “Podere Sotto Il Noce”; per me che, oltre ai vini, cerco storie, è il luogo perfetto in cui perdersi e trovarle.
Max inaugura il suo podere nel 2017: è milanese, è un manager, con una grande passione per il vino e la Borgogna nel cuore, ma decide di cambiare vita, trasferirsi a Castelvetro, e riprendere il sentiero lasciato anni prima dai suoi nonni, produttori di vino nell’Astigiano, seguendo la strada forse meno facile oggi in Italia, quella dell’agricoltura biodinamica. Il ritorno alla terra diviene, così, l’obiettivo che catalizza tutte le sue forze e le sue intenzioni.
Il Podere è un terreno di circa sei ettari posto in zona precollinare e collinare, sui pendii dell’altura esattamente dirimpetto a quella dell’azienda di Vittorio Graziano, del quale ho avuto modo di parlarvi un annetto fa: è un terreno poco meccanizzabile, scosceso, sul cui lato pianeggiante campeggia l’enorme albero di noce dal quale il podere prende il nome, mentre, sull’altura, il confine è retto da una fitta macchia di bosco, proprio come un tempo. Attorno all’albero di noce, filari di vecchie viti, alcune di più di sessant’anni, insieme alle nuove piantate da Max: le varietà sono le locali Lambrusco Grasparossa, Fioranese e Sorbara, il Trebbiano (di Spagna e Modenese) e uve autoctone in porzione mista, come l’Uva Tosca.
Il terreno sotto i miei piedi è rosso e scuro, vene di ferro sanguigne affiorano dalle argille sedimentarie: Max non utilizza, ça va sans dire, alcun prodotto sintetico o chimico in vigna, e lascia che il terreno esprima nella vite, con il minimo intervento, la sua tipicità, insieme a quella del varietale, lasciando liberamente parlare ogni pianta con la sua compagna di terra. Inerbimento, sovescio annuale e nessuna irrigazione (che nelle annate siccitose come la 2021 significa perdere molto raccolto e anche piantine giovani appena messe a dimora), completano il quadro agronomico. Anche le pratiche di cantina sono volte al minor impatto umano possibile: la lingua misteriosa e naturale della collina si esprime così senza filtri. L’uva, selezionata grappolo a grappolo, giunge in cantina solo a piena maturazione, filosofia anticontemporanea, certo, ma foriera di qualità, poi è diraspata, pigiata delicatamente ed il mosto ottenuto è messo in fermentazione con i soli lieviti indigeni. I travasi, eseguiti con estrema attenzione, sono il solo complemento ad una vinificazione che lascia respirare in presa diretta il terroir, e le seconde fermentazioni in bottiglia, seguite con attenzione maniacale, si praticano, a perfetta chiusura di un ciclo coerente a sé stesso, con l’aggiunta di mosto refrigerato pertinente alla stessa annata di vinificazione.
L’annata è, per Max, un ago sensibile della bilancia universale, segna la sua firma su ogni vino: per questo su ogni etichetta ne riporta la descrizione accurata. Nessun vino è mai uguale da un anno all’altro, e, a proposito delle etichette, sono tutte disegni originali di Denis Riva, una sintesi dipinta dell’anima del vino, imbrigliata e sigillata nelle panciute bottiglie di vetro scuro.
Max mi accoglie per la degustazione nell’attico fresco e in penombra della vecchia cascina dove si effettuano una parte delle operazioni di vinificazione e sono conservate le bottiglie.
I suoi vini, tutti dal nome parlante e legato alla storia ed al dialetto locale, sono quasi sempre frutto di vinificazione di più varietà, che insistono su una determinata parcella di terreno, proprio come accadeva un tempo, tutti rifermentati in bottiglia: “Cattabrega”, rosato da Grasparossa, Sorbara e Modenese, “Confine”, rosso dalle uve della vigna più vecchia, “Saldalama”, rosso da Grasparossa, Sorbara e Trebbiano modenese, “Mennabò” invece Grasparossa di Castelvetro in purezza, così come “Funambol” è Trebbiano di Spagna, 100%, mentre “Valtiberia” è un blend di Trebbiano Modenese e Trebbiano Di Spagna, e “Franzes” è Grasparossa, Sorbara e Trebbiano Modenese, stesse uve , in proporzioni diverse, che entrano nel “Parpain”, dove le ultime due hanno uno spazio maggiore. Max generosamente mi fa degustare tutte le sue creature, e due sopra le altre catturano i miei sensi e la mia attenzione: “Funambol” e “Confine”.

“Funambol”, provvidenziale equilibrista sulla fune sottile del Trebbiano di Spagna, è un vino senza paragoni nel suo genere, un concentrato di complessità, freschezza e ossidazione controllata. Le uve vengono pigiate a grappolo intero, in modo molto delicato. La fermentazione avviene in contenitori Clayver, ed il mosto viene chiarificato solo mediante travasi e travasi, senza nessuna correzione: è la sola qualità delle uve a parlare. Il vino è poi imbottigliato in luna crescente, e nel bicchiere si rivela denso e carico, del colore delle pietre illuminate dal sole del tramonto sulla collina: al naso è delicato e floreale all’inizio, per poi sfoderare, con l’aumento della temperatura, una magistrale freschezza di erbe, spezie ed albicocca matura. In bocca è un trionfo di sapidità, scorza di agrume grande, frutta a guscio, balsamico e tenue ossidazione, complesso e diretto insieme. Ho degustato l’annata 2020 con Max, e ho portato a casa un’annata 2019 che, aperta recentemente, si è rivelata ancor più interessante ed evolutiva. Vino adatto anche ai primi freddi e ad abbinamenti inconsueti, ha accompagnato egregiamente un piatto di risotto ai funghi porcini.

L’altro coup de coeur della mia giornata è “Confine”, forse il vino che meglio interpreta l’anima del Podere e la filosofia di Max. Il vigneto da cui viene lavorato si trova a 130 metri di altitudine, ha un’età media di 60 anni ed ospita non meno di 12 varietà differenti di uve locali, lasciate crescere spontaneamente sino a maturazione, e selezionate meticolosamente. In cantina, il mosto macera sulle bucce circa 6 giorni: Max non è un grande fanatico della macerazione in sé, eppure la utilizza se ritenuta in linea con la creatura che ha in mente di far nascere. Il resto lo fanno la consueta e accurata serie di travasi e l’attenzione rigorosa in ogni passaggio della vinificazione. Degusto l’annata 2019, 1062 bottiglie prodotte, imbottigliato il 26 Maggio 2020, in luna crescente, proporzione delle uve tra bianche e rosse ovviamente unica.
Nel bicchiere, il colore è rubino acceso, trasparente: nonostante la luce sia fioca, risplende intenso, come fosse succo fresco di un frutto sconosciuto. Il naso è allo stesso tempo orientale e padano, unisce the nero, spezie e marasca, mentre in bocca ciò che arriva è la freschezza delle bacche rosse del bosco, che sembra di masticare, l’intensità della terra umida e ferrosa, e la piccantezza smussata del pepe nero. La sapidità e l’acidità vibranti lo rendono lunghissimo ed ancor più palpitante, davvero una creatura viva.
È il vino figlio del grande noce, un sortilegio di uve selvagge e senza età, color del sangue fresco, mai uguale di annata in annata, ma sempre vinificato, come un baluardo al Podere: il Confine con l’asfalto, con il presente che vuole vini perfetti eppure senz’anima, contro i vini che invece narrano della nostra terra fertile e libera e delle nostre radici, del duro pane quotidiano che era fortunatamente anche vino e non solo pane.

Quel vecchio vigneto al di là di qualsiasi definizione prospera ormai in incredibile simbiosi con il noce, ed è testimonianza vivente di questo Confine che Max difende ogni anno, consapevole che l’impresa sarà sempre più ardua, ma non priva di meraviglia.
È quasi l’ora di pranzo quando ci salutiamo: decido di fermarmi ancora nella mia amata Castelvetro. Percorro senza sandali i viottoli medioevali di pietra rossa e le piazze semideserte sotto il sole di Agosto, per sentire meglio il rumore silenzioso del tempo, prima di sedermi per un buon piatto di tagliatelle ed un calice di vino, con la tranquilla e grata consapevolezza che qui tradizioni e confini saranno sempre rispettati.