Story of a Wild Guy

Stefano Cremaschi, nome relativamente nuovo nel panorama degli Spiriti di alto livello, entra nel mio mondo un pomeriggio di Maggio del 2018, in occasione di un ben organizzato Velier Day ospitato proprio a Crema, presso la sua Enoteca, sulla strada Paullese, un edificio che, a passarci davanti, poco sembrerebbe aver a che fare con l’enologia: sembra più una concessionaria, diresti, o giù di lì, eppure le insegne di Velier mi accompagnano ammiccanti all’ingresso di un gran cubo luminoso, dedicato all’esposizione dei Vini Tripla A, altra etichetta Velier, ed al mondo degli Spiriti dello stesso brand: a lato, in una sala organizzata in stile aula universitaria, masterclass tenute dai nomi più noti del panorama si contendono folle di appassionati e gente del mestiere. Partecipo a due di esse, e mi dico che è un gran bello spazio, quello dove si fa cultura diffusa su una materia poco conosciuta, in Italia, come quella degli Spiriti, dove la condivisione è sempre poca e ci si affida alle associazioni di appassionati, che mettono a disposizione di un pubblico sempre più desideroso di buona informazione, un sapere spesso immenso e poco riconosciuto. Merita che se ne parli, questo spazio. E, guarda caso, poco tempo dopo, ricevo un invito per il nuovo programma di eventi formativi organizzato nello spazio Cremavini, e battezzato “Cremavini Academy” dallo stesso Stefano. Uno luogo d’incontro e studio dove personalità riconosciute come autorità dello specifico settore potranno avere un pubblico e diffondere cultura del bere in modo continuativo. Tra me e me, penso anche che questo ragazzone dal viso bonario di idee ne abbia sempre avute tante, tutte guidate dal fil rouge della grande passione per i distillati, a partire da “The Wild Parrot”, progetto ideato da Stefano e gestito insieme al socio Andrea Ferrari, e “Hidden Spirits”: nomi dietro i quali si celano scrupolose selezioni di rum operate da lui e da Andrea, che stanno facendo parlare di sé gli appassionati da un po’ di tempo a questa parte. Decido di tornare a Crema, per una chiacchierata informale: siamo intorno a Natale, ed i magazzini dell’enoteca, oltre che il negozio, sono in pieno fermento. Il luogo, che da fuori ha sempre il suo aspetto un po’ asettico, dentro si rivela foriero di tesori d’ogni tipo, in forma di vino o distillato, e cammino col naso per aria come una bambina in un negozio di giocattoli, mentre Stefano arriva ad accogliermi. Ci eravamo visti l’ultima volta al Whisky Live di Parigi, nello scorso Settembre, dove ero rimasta piacevolmente colpita da una sua selezione di Uitvlugt 1997 imbottigliato nel 2018, con chiara dicitura di invecchiamento continentale in etichetta. È sempre il solito ragazzo grande, entusiasta di quello che fa anche con mille cose da fare. Gli chiedo di parlarmi di questa realtà che, partendo dalla semplice enoteca, è divenuta tanto altro e molto di più. Tutto nasce da un progetto condiviso con il suo amico e socio, Andrea Ferrari, dietro al quale c’era l’idea di lanciare una selezione di rum che riflettessero il loro gusto e ne trasportassero il messaggio al mercato. Una selezione che si sarebbe chiamata “The Wild Parrot”, pur se all’epoca si erano vagliati vari altri nomi: il pappagallo, infatti, è un soggetto ampiamente utilizzato nel mondo del labeling dei rum, ma questo in particolare era stato immaginato come un pappagallo diverso, selvaggio, che parlasse della volontà di non risultare standardizzati, d’esser fuori dai canoni: coda lunghissima, colori inconsueti, molto studio dietro all’immagine. Dal 2019, mi dice, “niente più animali” (Giulia è la designer molto in gamba che si sta occupando delle meravigliose etichette multicolori che rendono uniche le sue bottiglie, e ben si abbinano all’unicità del contenuto) ed usciranno, udite udite, col primo tropicale. Già, perché una delle caratteristiche, sinora continuative, di questa selezione di perle, è l’indicazione “Continental Ageing”. Mi mostra, a tal proposito, l’ultimo nato, un Hampden, etichettato “Trelawny” (distilled in Hampden Distillery), un full proof a 63,1% ABV, indicazione continental ageing, 1998 – 2018, marker esteri non indicato sempre per scelta (è un HLCF, per chi fosse curioso).
Il modello a cui si ispira, nemmeno troppo celato, è colui che per lui è anche un grande amico, testimoni ne sono le avventure comuni e le tante fotografie esposte in negozio, Luca Gargano, che in Italia ha letteralmente svecchiato il mondo del rum. Il suo rapporto con Velier è iniziato già a fine anni ’90, quando ancora non era arrivato Capovilla, e Luca è stata la persona che lo ha formato ed iniziato ai Demerara, ed introdotto agli Agricoli con Saint James, Bally ed altri. Poi a metà anni 2000 è arrivato Caroni: la storia di quest’antica distilleria di Trinidad era davvero affascinante, ma commercialmente la faccenda venne mal compresa dalla clientela, e di ciò che aveva acquistato da Velier si vendettero poche bottiglie e con difficoltà. I clienti dicevano che non era rum, e che era strano, per via dei famosi sentori di idrocarburo e gomma bruciata. Aveva pensato di non comprarlo più. Poi il fenomeno Caroni esplose, e si cominciò a vendere a grandissime quantità, e fu un successo. Nel 2016, il rapporto di amicizia con Gargano lo portò a selezionare quello che è oggi universalmente noto come Caroni “Cremaschi”, Single Cask da 70.8%, la petite bombe che, anche a me, che non sono propriamente una “goudronneuse”, è davvero piaciuto, perché arrotondato da note burrose e di frutta che ne temperano il carattere “chimico”, a dimostrare la gran raffinatezza, ma anche l’acume con cui Stefano ha cercato di raggiungere un pubblico dal gusto evoluto e non necessariamente legato all’archetipo. Fu un grande successo, che diede visibilità al lavoro di Stefano.
In seguito, nel 2018, uscirono due Caroni “pappagallini” gemelli, i single cask 1998 – 2018, cui si decise di dare due vesti di colore differente, bianco e rosso nello stesso momento, ad inizio 2018, per rispondere alle diverse attese e gusti del folto pubblico.
Parlando di gusti, scopro che, nonostante la pietra miliare Caroni, Stefano è un fan della Giamaica, terra meravigliosa di rum storici, distillati in pot tradizionali, da melassa esposta a lunghe fermentazioni innescate da lieviti selvaggi, che conservano, nel loro bouquet esuberante e vagamente “chimico”, la natura paradisiaca dei luoghi. Condivido con lui la passione per la finezza dei vecchi Monymusk, sebbene la distilleria preferita di Stefano resti comunque Long Pond, nelle sue versioni meno cariche di esteri, e pur riconoscendo entrambi che l’Hampden recentemente supportato nell’uscita al mercato da Luca Gargano sia una piccola meraviglia, un eccezionale daily dram ad un prezzo davvero interessante. È in questo momento che compare, sul tavolo che ci ospita, la meravigliosa bottiglia del suo Hampden marcato “Trelawny”, come la contea su cui sorge la nota distilleria. Me lo versa nel bicchiere, ed è oro chiaro lucente, dai mille riflessi. La temperatura del distillato è leggermente più fredda dell’ideale, ed attendo per poter godere del suo bouquet appieno. Questa passione lo ha portato ad organizzare una masterclass firmata Cremavini Academy, penso la prima ed unica in Italia, sui Rum Giamaicani, il prossimo 21 Febbraio, dal titolo suggestivo “Lost In Jamaica”, dove si apriranno rum che sono incredibili, rarissimi, e di cui a lui, che peraltro non si definisce collezionista, alla fine sono rimaste pochissime bottiglie. Mattatore della serata un grande esperto di rum Giamaicani, e non solo, in Italia, Pietro Caputo, fine degustatore che ho la fortuna di conoscere anche io. Che dire, se non che siamo impazienti…
Altro territorio mitico in cui approdiamo, nel nostro veleggiare tra i suoi racconti, è quello di Demerara, per il quale le selezioni di Stefano hanno firmato, a parte il fine Uitvlugt che ho degustato a Parigi, anche un Diamond 2003, un single cask imbottigliato nel 2017, e sicuramente ci verranno riservate nuove selezioni per il futuro. Tempo fa, mi racconta, è stato anche in Guadalupa con Marco Graziano (Le Vie Del Rum), perché non smette mai di essere curioso a proposito dei rum di ogni tipo, non condividendo le posizioni troppo assolutistiche che molto spesso creano inutili polemiche (invecchiamento tropicale o continentale, melassa o vesou): ad esempio in Guadalupa è rimasto impressionato dall’ambiente familiare ma davvero d’impatto e dal gran savoir-faire di Bologne, che
sfodera ogni anno prodotti eccezionali, ed, allo stesso modo, dalla capacità di evoluzione di Bielle, famosa per i rhum da lungo invecchiamento, o dall’immagine raffinata e mondana di Longueteau, molto accattivante, con un prodotto su tutti a fare la differenza, il bianco brut de colonne Genesis, poi ancora sicuramente da Reimonenq. Parlando di altri produttori del luogo, di Damoiseau ha ricordato il fantastico 1980 ancora una volta selezionato da Gargano, pietra miliare per il rum e per quel produttore, a dimostrazione del gran fiuto di Luca per i distillati eccezionali.
Durante una piccola pausa di negozio, avvicino al naso il Trelawny, sperando che scaldandosi possa rilasciare un po’ della sua anima prima rattrappita sul fondo del bicchiere: scopro, oltre alla tipica nota vinilica di firma giamaicana, un interessante sbuffo di spezie dolci, piuttosto inconsueto per la categoria.
Stefano concorda, e gli chiedo come effettui queste selezioni così particolari e distinguibili, ogni volta, e come riesca, tra tanti, a dire “voglio imbottigliare quel barile o quell’altro”: chiaramente, lui mi dice, la base è assaggiare tutto, anche cose che non si imbottiglierebbero mai, o non si amano particolarmente: cercare di bere un po’ di tutto forma il palato e definisce i gusti. Quando sono partiti, in questo nuovo spazio, non contavano più di 40 etichette e letteralmente aspettavano che qualcuno entrasse, su una strada di passaggio veloce (la strada statale Paullese), dove la struttura, come detto, dà un’idea più di magazzino industriale, che lavora solo con bar e ristoranti, mentre oggi entrano molte persone, dal cliente normale all’esperto, od a chi, oltre alla bottiglia, compra anche il panettone.
La famiglia di Stefano si occupa da sempre di bevande all’ingrosso: sono venuti da Bergamo negli anni ’50 perché avevano una libera concessione per la vendita della Birra Orobica. Il nonno, con tre figli, che poi diverranno cinque (il padre di Stefano, a 16 anni era il contabile dell’azienda), comprò inizialmente un piccolo magazzino a Crema città, dove c’era comunque una forte concorrenza. Fu un nonno davvero lungimirante, perché nel 1971, in piena crisi del mercato edilizio e delle concessioni, comprò il luogo dove ora sorge l’enoteca, un’area quasi 20 volte più grande di quella dove avevano inizialmente aperto l’attività, perché era cosciente che per fare il loro mestiere in scala maggiore c’era necessità di più spazio. Stefano stesso è nato a Crema, ed onestamente afferma che lui oggi non sarebbe riuscito a far tutto questo, anche se da questa base è partito per sviluppare altri percorsi ed idee. Inizialmente questa attività di grossisti, ancora uno dei pilastri della sua azienda, era qualcosa che non sentiva come suo, ma l’evoluzione imposta negli ultimi tempi alla sua attività, soprattutto con la nuova appendice dell’Academy, lo appassiona e lo muove al miglioramento, pur con i tanti errori iniziali, frutto di inesperienza. Questo grande spazio, a poco a poco, è stato modificato e reso umano, ed oggi è un luogo accogliente, più in linea con l’idea di fondo, anche se non ancora completamente. Nel lavoro di restyling lo sta assistendo un architetto molto bravo, che sta lavorando in primis sull’Accademia, ma un domani si occuperà anche del negozio.
La passione fortissima per i distillati gli viene anche dalla frequentazione di personaggi del calibro di Pepi Mongiardino (Moon Import), ai tempi in cui, semplicemente, si andava in Scozia e si imbottigliava, ed il whisky aveva un prezzo molto più basso rispetto ad oggi. Fu l’epoca di Samaroli e Nadi Fiori, e dei prodotti imbottigliati negli anni 60 e 70, che magari uscivano di 10 anni, perché non si imbottigliavano whisky con molti anni sulle spalle, ma fu anche l’epoca in cui si portarono in Italia nomi come Bruichladdich o Clynelish, che non erano noti, ed in Scozia, dice, agli italiani si aprivano i magazzini, e si faceva imbottigliare di tutto, mentre oggi gli scozzesi si son fatti furbi. Soprattutto Nadi Fiori, conosce parcoeur ogni singola distilleria e produttore, perché ha vissuto quegli
anni in presa diretta, si può dire che sia una sorta di papà spirituale dello Scotch, mentre Samaroli, che da pochi anni ci ha lasciato, resterà il maestro indiscusso dei blend: questa temperie, vissuta in tempo giovanile, come un’epopea, lo ha formato e gli ha restituito passione ed interesse, che lui oggi mette nel suo straordinario quotidiano.
I rum sono stati un universo esplorato non solo con Luca Gargano, ma, soprattutto, a livello storico e degustativo, con Andrea, il suo socio, e con Pietro Caputo, con il quale, in varie serate “domestiche”, si è andati all’esplorazione soprattutto di Demerara e Giamaica, attraverso i vari mark on the barrels e distillerie, come Monymusk, splendida realtà giamaicana, madre di rum eleganti e singolari, diversi da Hampden e Long Pond, ed in effetti prediletti anche da Mongiardino, ed alle vecchie selezioni giamaicane di Cadenheads. Il cuore di Stefano, da un punto di vista “rumistico”, come detto, resta in Giamaica, dove predilige i rum bassi in esteri (es. Hampden fino a HLCF); della Guyana, invece, ama principalmente i vecchi Port Mourant, Uitvlugt, e qualche Enmore, non ama particolarmente i Versailles. Apprezzo moltissimo il fatto che sia innanzitutto appassionato alla storia, ed è una cosa che condivido pienamente: andare alle radici e conoscere il passato di un distillato è ciò che segna la differenza tra un mero selezionatore di gusto, ed un selezionatore che intende recuperare e far conoscere, attraverso il suo gusto confrontato con i gusti dell’epoca, uno stile ed una storia al pubblico.
Intanto il Trelawny nel mio bicchiere comincia a sviluppare note sempre più intense, segno che la degustazione può finalmente decollare: il naso, che era permeato da una delicata nota vinilica, ed arrotondato dalle spezie, si fa adesso orientaleggiante ed intenso, pur restando molto elegante. Il palato è dominato dal frutto tropicale maturo ma non perde la bella nota di thè verde, che lo rende distinguibile, fresco e vibrante. Chiude una piacevole retrolfattiva di anice (badiane) che lo rende molto lungo. Stefano mi spiega che, dopo la filtratura, il rum è stato imbottigliato appena prima dell’estate, e concordiamo sulla grande importanza di far restare i distillati in bottiglia un po’ di tempo in più prima della vendita, perché l’imbottigliamento è sempre un’azione un tantino violenta, che destabilizza la palette olfattiva e gustativa finale, ed è importante che l’equilibrio venga recuperato ed il distillato continui ad esterificare e maturare. In generale, non crede che ci sia un sistema di invecchiamento migliore tra tropicale e continentale, prova ne sono alcuni Demerara e Giamaica Bristol di qualche anno fa, invecchiati in continente ma molto eleganti, e non solo. E’ l’anima di un distillato, in un’annata ed in particolari condizioni, che vogliamo narrare al pubblico, ancora una volta a dover parlare, quindi non c’è un solo modo di farlo, ma questo modo può certamente essere più adatto di un altro a comunicare taluni aspetti per noi importanti.
Mi chiede se mi piacciano i rum Savanna, ed io confesso che apprezzo qualche bianco, perciò, in seconda degustazione, mi fa assaggiare un altro rum che rappresenta un pezzo di storia di questo distillato, un grand-arome, stile tipico dell’isola di Réunion, che ormai è un hapax nel mondo del rum, da melassa con un contenuto di esteri di solito piuttosto consistente, anche se, in questo caso, sono solo 130 g/l, un G2, distillato in colonna Savalle, e messo in fusto di Cognac nel 2006, che recentemente gli è stato inviato: un rum potente (59.4 % ABV), che pure conquista per la sua morbidezza di frutta tropicale caramellata e le sue note golose di creme brulée, pan brioche e cioccolato al latte. Una chicca… Mi chiedo se mai questa piccola degustazione che mi è stata offerta non apra scenari futuri per The Wild Parrot… Chissà.
Ci accomiatiamo con una visita esplorativa all’Academy, un vascello vuoto, in questo momento, che accoglierà i futuri naviganti nei mesi a venire, si spera numerosi: è uno spazio inedito, così grande, ora, senza stands e persone, estremamente modulabile, con una zona più intima e riservata, per poter effettuare corsi riservati anche a poche persone, o meeting ristretti, o degustazioni dedicate. È uno spazio che non c’era, anche per me che, sommelier, cosciente di quanto poco tempo ed impegno si dedichi oggi ai distillati nei corsi nazionali, rappresenta una piccola rivoluzione che fa bene al cuore ed al futuro di chi li studia. Uno spazio che, poi, mi riempie di gioia perché so bene che nelle mani di Stefano e di chi ha almeno un grammo del suo entusiasmo nel cuore è il loro destino.
In attesa di “Lost in Jamaica” e delle future masterclass che verranno ospitate a Cremavini Academy, mi accommiato da questo ragazzone dal cuore grande quanto e più di lui, che conserva bene il suo spirito selvaggio e controcorrente, e lo ringrazio per la splendida accoglienza e la solita generosità, sperando che questo entusiasmo che lo muove lo accompagni sempre, per amore di una cultura ancor troppo mistificata e ritenuta di contorno come quella dei distillati e soprattutto del rum.

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Un pensiero riguardo “Story of a Wild Guy

  1. Grande ragazzone quasi quasi vengo a trovarti il 21 febbraio!

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