Rumrunner reloaded – Trip to Barbados

Dopo tre mesi passati a programmare una vacanza ad Haiti a caccia delle distillerie più artigianali che ci siano e delle varietà di canna da zucchero più antiche, la cattiva notizia, soprattutto per il popolo Haitiano, di una guerra civile, mi spinge, verso fine Giugno, a cambiare mio malincuore, destinazione, ed anche a stretto giro, per non perdere troppi soldi in un cambio di biglietto: tappa a Miami, e poi trovo l’occasione per far rotta verso Barbados, patria, probabilmente, delle prime distillerie di rum della storia delle “Indie Occidentali”.

Ancora una volta, zaino in spalla, si parte: i giorni a Miami e Key West (bellissima) passano veloci tra birrifici e cocktelerie, nell’attesa di arrivare, ancora una volta, dove “il wifi è debole ed il rum è forte”.

Barbados, ex colonia Britannica, stato indipendente del Commonwealth dal 1966, è un’isola grande, 430 km2, non vulcanica, dal panorama simile a molte isole caraibiche, con alcuni rilievi centrali, ancora sede di millenarie foreste, spiagge coralline sulla costa, alternate a zone rocciose. La natura calcarea del suolo la rende ideale alla coltivazione della canna da zucchero, che, sin dagli albori del commercio dello zucchero verso le monarchie Europee, fu la coltura più praticata da queste parti, tant’è che Barbados e Demerara vengono appunto considerate, a buon diritto, la culla del primo “rum”.

Nelle colonie si produceva inizialmente un primo zucchero lavorato, inviato in barili in Europa per un ulteriore raffinamento: era il muscovado, praticamente senza residui, infatti da esso non si ricavava alcuno scarto distillabile. Nella seconda metà del seicento, poi, si evolvono le tecniche di raffinazione, sotto l’impulso della comunità ebraica olandese, scacciata dallo stato di Pernambuco, in Brasile, che trova asilo prima lungo il fiume Demerara in Guyana, e poi proprio a Barbados.

Qui, per la prima volta, si produce un semilavorato superiore, il “sucre terré”, o “clayed sugar”, concentrando il succo di canna in cinque caldaie di rame, a fuoco vivo, e cristallizzando il liquido, che, dopo la cottura, viene versato in contenitori d’argilla con il fondo traforato, poi esposti al sole per permettere l’essicazione dello zucchero ed il defluire dello scarto liquido non cristallizzabile, ma distillabile, ovvero la melassa.

Siamo intorno al 1650, ed è qui che si distilla il primo rum della storia, un alcol di melassa forte e sgraziato, definito “Kill Devil” o “Rumbullion”, da cui Rum.

Da allora sino al crollo del mercato dello zucchero, Barbados rimane un fulcro per quei traffici, non più solo di zucchero, ma anche di rum, conforto alla marineria dapprima, e novità di mercato poi, soprattutto per la nobiltà inglese: nel diciannovesimo secolo c’erano poco più di dieci fabbriche di zucchero e la canna da zucchero veniva raccolta usando migliaia di schiavi africani: i mulini a vento erano allora abbondanti e usavano l’energia eolica per estrarre il succo. Molti sono ancora oggi sparsi per l’isola, ed il più famoso è il mulino Morgan Lewis.

Barbados gode di un clima temperato, più fresco sulle alture interne, con le classiche due stagioni caraibiche, la secca e la piovosa, che dividono l’anno sostanzialmente in due parti. Il terreno è calcareo ed ha in più un ingrediente speciale: alti livelli alcalini che portano una combinazione particolare di minerali e sostanze nutritive che aiutano a definire il gusto particolarmente intenso dello zucchero, e quindi anche delle melasse.

E’ il 12 Luglio, piena stagione delle piogge, quando atterro a Bridgetown: il cielo è plumbeo e l’umidità palpabile. Una gigantografia di Rihanna mi accoglie all’uscita del controllo passaporti.

Le formalità sono spicce in un piccolo aeroporto, ma i controlli sono comunque severi: un taxi e sono in Hotel, vicino a Oistins, davanti ad una spiaggia bianchissima ed al consueto “caribbean blue”, che è sempre una gioia per gli occhi, anche con il tempo incerto. E’ sera ormai, ma il benvenuto me lo danno un punch a base di rum, frutta e noce moscata, ed in seguito, un Doorly’s XO, super smooth, ad accompagnare un piatto di cucina locale, pesce salato e ocra, una sorta di piccola e saporita zucchina, che gusto davanti ad un maestoso tramonto.

Un ottimo inizio, che non mi impedisce di notare come, in realtà, una parte del villaggio dove sorge il mio hotel sia composta da baracche un po’ lasciate a se’ stesse e casette di impronta “creola”, ed un’altra, più moderna, sia un insieme ben separato da queste di locali per turisti, hotel, sale slot e supermarket. Un bel divario, che, forse, in altre isole che ho visitato mi era sembrato un po’ meno evidente, così come la presenza di persone che chiedono l’elemosina o anche solo del cibo, sulla via o in spiaggia. Possibile che fosse quel particolare luogo, ma è una cosa che non mi ha lasciato indifferente.

I Barbadiani, per lo più neri ma con mille sfumature differenti di pelle, sono socievoli e curiosi, gli uomini alti e magri, spesso con enormi chiome intrecciate, le donne dai visi solari ed accoglienti, e dalle forme generose come la loro terra. Ci sono anche bianchi, che lavorano più che altro negli impianti turistici e nelle distillerie. Si parla un misto tra l’inglese e la lingua locale, il bajan, che all’inizio fatico un po’ a comprendere, ma dopo qualche giorno mi sembra quasi naturale.

Nei giorni precedenti al mio arrivo, ho prenotato diligentemente le visite a tre delle quattro distillerie presenti sull’isola, due di esse a pagamento, Mount Gay e St. Nicholas Abbey, anche in ragione del loro “valore” storico, mentre Foursquare completamente gratuita, grazie alla gentilezza di Richard Seale, che ne è proprietario, ed è un master distiller e master blender tra i più noti al mondo. So che esiste una quarta distilleria, la famosa West Indies Distillery, ma sembra sia difficilissimo prendere appuntamento per una visita guidata, non essendovi indicazioni nemmeno su internet, ed il sito fisico, nei dintorni di Bridgetown, è protetto da un filo spinato tutto attorno.

Per poter effettuare le mie visite, visto che ho una settimana a disposizione e l’isola è grande, decido di affittare un’auto con driver che conosca bene luoghi e curiosità, e sia in grado di sviluppare un itinerario interessante a partire dalle distillerie, con la possibilità così di fare degustazioni senza problemi, invece di andare a tastoni fittando un’auto: si rivelerà una buona scelta per guadagnare tempo, ed il prezzo non si discosterà molto dall’affitto di un’auto per tutto il periodo.

Il primo, attesissimo, appuntamento, è alla distilleria Mount Gay, e ci muoviamo di buon mattino per raggiungere il sito di produzione, a St. Lucy, sulle alture centrali dell’isola che loro chiamano “Mountains”, come ogni rilievo che superi i 50 piedi. Questo luogo, denominato “Mount Gilboa”, fu teatro del più antico sito di produzione di rum della storia: la distilleria infatti è in funzione certamente dal 1703, ma recentemente sono stati trovati documenti che collocano l’attività ancora più indietro nel tempo, nel 1654.

Nel 1747 la piantagione fu acquistata da John Sober, che, come era prassi, incaricò della gestione un suo secondo, Sir John Gay Alleyne, baronetto e rappresentante politico. La famiglia Sober fu così colpita dall’operato di Mr. Alleyne che, dopo la sua scomparsa, nel 1801, ribattezzò il toponimo Mount Gilboa in Mount Gay (non Mount Alleyne perché ne esisteva già uno sull’isola). Nacque così il futuro marchio.

A quei tempi, molte piantagioni cominciarono a subire l’inesorabile flessione legata al cambiamento di direzione del mercato dello zucchero, ed all’introduzione, in Europa, dello zucchero da barbabietola.

Mount Gay si difese in quello scenario così critico, grazie alla qualità del suo rum, che divenne noto tra i circoli della nobiltà inglese anche per il suo prezzo concorrenziale, e fece sì che l’attività della distilleria non si arrestasse ed arrivasse sino ai giorni nostri. All’inizio del ventesimo secolo, fu un certo Ward ad entrare in lizza, e poi acquistare, molte piantagioni a Barbados, tra cui, alla fine, anche i 385 acri di Mount Gay.

Fu Ward a creare una società distinta da quella delle piantagioni e della distilleria, denominata Mount Gay Distilleries Ltd., che si occupava esclusivamente di blending ed imbottigliamento, per far fronte ad una legge inglese che impediva alle distillerie di vendere rum direttamente ai consumatori. Quest’ultima ha ancora, oggi, sede a Bridgetown, dove sono collocati anche lo shop e il bar con degustazione dei prodotti.

In seguito, nel 1989, Rémy Martin (ora Rémy Cointreau) acquistò 21 marchi, e con esso la proprietà di maggioranza di Mount Gay Distilleries Ltd., ovvero possedeva il marchio ma non i mezzi di produzione: la distilleria continuò ancora per un po’ ad essere gestita infatti dalla famiglia Ward.

Nel 2005 purtroppo l’impianto versava in gravi difficoltà finanziarie ed occorrevano seri investimenti per dotarlo di nuovi alambicchi più rapidi, e continuare con successo l’attività. Fu sempre più difficile trovare un accordo, e, alla fine del 2013, Frank Ward sospese la sua attività di distillazione, mentre il marchio Mount Gay continuò a vendere grazie alle scorte di magazzino esistenti, fino a che, nel 2014, anche l’attività di distilleria fu venduta alla Rémy Cointreau.

Esiste un rum, imbottigliato da Velier, una parte come Mount Gilboa ed un’altra come Last Ward, prodotto con i vecchi alambicchi ed in tripla distillazione, che testimonia questo affascinante “passaggio di era” della distilleria.

Oggi la Rémy Cointreau continua a produrre qui una nuova serie di rum, dai bianchi agli invecchiati, con le nuove colonne di distillazione, oltre ad un piccolo quantitativo di rum in serie limitata, dagli alambicchi storici, i magnifici Forsyths Double Retort, e la colonna Coffey di fine ottocento, anch’essa recentemente rimessa in funzione: la nuova edizione, creata dall’attuale master blender, ha già visto la luce per il mercato americano.

Il sito di produzione è placidamente disteso tra il verde dei campi di canna da zucchero che, scopriamo, non è in quantità sufficiente a produrre la melassa che copra la produzione del rum, quindi Barbados importa melasse dalla vicina Demerara, anche per temperare la carica alcalina e la particolare concentrazione di quelle locali.

L’acqua utilizzata per l’impianto e per il rum proviene da un pozzo artesiano profondo 300 piedi, sito all’interno dell’area produttiva. La gita prevede la visita di tutti i segmenti della catena produttiva, salvo la produzione delle melasse, fino ad arrivare ai magazzini di invecchiamento, davvero imponenti, molto somiglianti a magazzini scozzesi, dove abbondano i classici bourbon barrel, ma troviamo anche tonneau francesi e legni spagnoli, quasi sempre di secondo e terzo passaggio.

Al momento la distilleria è in fase passaggio di consegne tra il vecchio Master Distiller, Blue, ed il figlio, mentre è arrivata da poco una nuova Master Blender donna, Trudiann Branker, con la quale ci divertiamo a preparare, a fine tour, un nostro originale blended rum che porteremo a casa come ricordo.

La parte più affascinante di Mount Gay, a parte il sito storico dove si viene accolti per un viaggio a ritroso nel tempo, è sicuramente quella relativa alla fermentazione, che avviene in sei grossi tun di legno, dove la melassa è inoculata con lieviti selezionati ma caratterizzati dalla flora fungina locale, e si sviluppa un odore che da pungente si fa via via più ricco e grasso, con il passare delle fasi, e capisci che il carattere di quel rum si forma qui, e, poi, dai vecchi, meravigliosi alambicchi, tutt’ora funzionanti per alcune produzioni particolari, mentre i rum di linea vengono lavorati nel nuovo impianto multicolonne situato in un edificio separato.

La pioggia torrenziale non ci risparmia nell’ultima fase del nostro tour: per fortuna, terminiamo con una corroborante degustazione nel visitor center, che mi fa venir voglia di scoprire, oltre ai nuovi prodotti, i piccoli tesori distillati con quegli strumenti che il tempo sembra non avere intaccato, che saranno poi il mio obiettivo allo shop.

Il giorno dopo ci aspetta una visita sulla carta più leggera, quella alla più vecchia piantagione dell’isola (1650), ed alla distilleria più giovane (2009): St. Nicholas Abbey.

Il tempo sembra essersi parzialmente rimesso, ed il nostro autista ci guida per un piccolo tour attraverso le bellezze naturali e storiche dell’isola. Un magnifico litorale di sabbie chiare e mare cristallino sfila ai miei occhi, mentre lasciamo Oistins per dirigerci verso St. Nicholas, passando per il centro di Bridgetown, la capitale: qui, molti edifici storici ricordano la vecchia Inghilterra, ed il centro non ha nulla da invidiare alle strade commerciali delle grandi capitali europee. Prima di salire sulle alture dove si trova la distilleria, passiamo per un quartiere di ville enormi, con piscine e campi da golf, e resort favolosi tra cui, ci spiega l’autista, quello della stessa Rihanna: io, per me, preferisco la natura, i colori straordinari del mare, i fiori, le persone che passano e salutano con grande cordialità, gli uccelli colorati e chiassosi e le scimmie molto socievoli (ce ne sono una quantità incredibile, di piccole dimensioni, anche tra le case), ed, infine, il mio panino con il flying fish e la birretta locale.

Mentre si sale, passiamo per strade dove la foresta sembra aver lasciato da poco il passo alla civiltà, e la sua voce si fa sempre più viva e assordante: St. Nicholas Abbey è protetta nel cuore verde di un’altura, Cherry Tree Hill, dove un tempo sorgeva l’antica piantagione, inizialmente di proprietà della famiglia Berringer, poi divenuta anch’essa appannaggio di Sir John Gay Alleyne: egli la rese grande e vi piantò, tra le altre cose, anche un enorme e magnifico mogano, che tutt’ora ombreggia l’abitazione. Il luogo è suggestivo e la vista eccezionale: il ticket che ho scelto prevede anche un tour del vecchio edificio padronale, restaurato varie volte dopo il 1700, che contiene ancora il mobilio e le decorazioni d’epoca, molto affascinante. Prima sola piantagione, St. Nicholas si distinse in seguito come fabbrica di sciroppo di canna da zucchero: questa, dopo l’Habitation, è la parte più antica, mentre è di nuova fondazione la distilleria, che utilizza, come materia prima, lo sciroppo stesso e non le melasse, distillando così, già in partenza, un prodotto molto ricco e caratteristico, che viene prodotto solo con la canna da zucchero locale, coltivata in modo biologico, in totale assenza di pesticidi.

L’attuale proprietario, Mr. Larry Warren, oltre ad aver reso visitabile e fruibile al pubblico una parte importante della storia di Barbados attraverso la cura e la dedizione per questo luogo “notevole”, si occupa da vicino anche dell’impianto di distillazione, che utilizza un magnifico pot still in rame della Holstein, costruito su misura, con piccola colonna di rettifica, denominato “Annabelle”, per distillare lo sciroppo puro locale, e produrre, con tutta la cura che potete immaginare, un totale di sole 6000 bottiglie di rum l’anno, divise tra un 30% di rum bianco ed il resto di invecchiamenti, tutti in ex-bourbon barrel Jack Daniels, tutti single cask. Al momento, l’invecchiamento più “antico” prodotto in loco è il 5 Years Old.

La degustazione che ci viene offerta è completa di ogni prodotto, ed è gestita con grande generosità sia di refill che di spiegazioni da parte di Mr. Warren. Il bianco mi colpisce particolarmente, e decido che lo porterò con me in Italia: un rum caldo, ricco e pieno, gradevolmente vegetale, e con un lungo finale speziato.

L’autista ci aspetta all’esterno, ed al ritorno ci godremo il lato più selvaggio dell’isola, con meno spiagge ed un litorale a tratti roccioso, ricercato dai surfisti, ed una lunga distesa di foresta, che diventa man mano campi di canna da zucchero, alberi da frutto e timide case sparse, riconducendoci con dolcezza alla civiltà.

Passiamo davanti allo stabilimento della West Indies Distillery, nella speranza che si apra uno spiraglio e, magari, ci facciano entrare in un momento di passaggio consegne: alla fine decido di suonare un campanello al cancello principale, quello con tutto il filo spinato. Mi aprono, entro con l’autista in un piccolo ufficio, e chiedo a due impiegate se, gentilmente, fosse possibile effettuare un tour della distilleria, anche senza fotografie. Loro non fanno tour, mi spiega, ma, in via eccezionale, mi dicono di scrivere al responsabile della produzione, Andrew Hassell, per capire se si possa organizzare qualcosa ad hoc, e lo faccio non appena risalita in auto. Riceverò una risposta, ed una proposta di tour, due giorni dopo: evviva!

Nel frattempo il pomeriggio invita a passare il tempo in acqua, finché non piove, ed a goderci tutti i colori del mare dei Caraibi.

L’indomani visiterò Foursquare, il regno di Richard Seale, e non vedo l’ora. Richard, gentilissimo, mi ha spiegato che non potrà farmi da guida personalmente, essendo impegnato a New Orleans per “Tales of the Cocktails”, insieme a molti altri produttori. Mi affida alle sapienti e ferme mani di Antoinette, il suo capo di stabilimento, una signora tutta d’un pezzo, dal sorriso raro ma sincero, e dai modi schietti e gentili. Arrivo a St. Philips puntuale: lei mi aspetta, già pronta, alle nove, e mi spiega rapidamente ma con completezza, la storia della distilleria, che da più di quattro generazioni è di proprietà della famiglia Seale, e le varie fasi della produzione del rum. Sul suolo della proprietà, oltre ad esservi un parco archeologico che mostra al pubblico i macchinari per la produzione di melassa e per la distillazione dei secoli addietro, c’è anche tutto quello che pertiene alla produzione, dalla fermentazione, alla distillazione, all’invecchiamento, all’imbottigliamento ed al packaging dei rum, sia della gamma Foursquare che Doorly’s che Old Brigand ed E.S.A. Field, questi ultimi due consumati localmente.

E’ una distilleria immersa nel verde di un parco ed estremamente user-friendly, dove il percorso dall’ingresso ai magazzini d’invecchiamento è segnalato con un sentiero guidato di impronte da percorrere, con cartelli esplicativi di ogni fase della produzione: le visite sono effettuabili tutti i giorni, eccetto la domenica, e comprendono l’intera distilleria, in nessun luogo è vietato l’accesso.

Un cartello esterno segnala che tutto funziona in modo “green” ed attento all’ambiente: Antoinette mi spiega che questa è la filosofia-guida qui, tanto che hanno incaricato una azienda italiana leader di settore di suggerire migliorie affinché tutto si svolga sprecando meno energia possibile, e, dove si riesce, riutilizzando le risorse.

Foursquare acquista la quasi totalità della melassa, come Mt. Gay, da Guyana, non essendovi sufficiente materia prima a Barbados: Guyana assicura una melassa di eccellente qualità e del resto questa non è una sostanza per la quale abbia senso parlare di terroir, come per il vesou, il succo fresco di canna da zucchero, soprattutto per quanto riguarda i prodotti destinati all’invecchiamento.

La prima parte della visita è dedicata alla fermentazione, che, anche qui, avviene con lieviti selezionati appositamente da Foursquare, in base al profilo ideale dei prodotti che si vogliono ottenere: questi lieviti vengono fatti innanzitutto moltiplicare e “caratterizzare”, poi aggiunti alle melasse. La fermentazione dura all’incirca due giorni, a temperatura controllata, in vasche d’acciaio chiuse, perché una delle precise volontà è che non si creino rum che portino con sé una eccessiva quantità di esteri provenienti dalla fermentazione: si cerca piuttosto di mantenere fermentazioni pulite, non lunghe e che non stressino troppo i lieviti. Il fermentato esce dalle vasche a circa 10% ABV, pronto per la distillazione.

Gli alambicchi sono due, un Double Retort Pot Still ed una colonna Coffey: apparentemente due strumenti tradizionali, ma funzionanti in modo moderno ed adattati alle nuove tecnologie. La doppia colonna Coffey funziona infatti ad una pressione controllata, per poter permettere una separazione ottimale del coeur de chauffe da teste e code, e permettere l’uscita di un distillato snello ed elegante, ancora ricco di componenti aromatiche, pur tra i 92 ed i 94%ABV.

Il Pot Still è un piccolo double retort dal collo lungo e stretto, progettato espressamente da Richard per contenere alcuni piatti di rame, a rompere ulteriormente il flusso e ripulire il cuore dai solfiti prodotti dalla fermentazione della melassa, attraverso il rame stesso.

Entrambi gli alambicchi lavorano sottovuoto, per poter distillare ad una temperatura minore, risparmiando così energia: sono ben visibili e fotografabili, in una stanza separata della distilleria, e tutto l’impianto comunica un’impressione di pulizia ed organizzazione.

I rum che escono dagli alambicchi vengono poi calmierati ed affinati, con l’obiettivo di immettere sul mercato prodotti complessi e innovativi ma estremamente easy-sipping, anche per un bevitore alle prime armi, e, soprattutto, raramente portati a gradazioni alcoliche estreme: i blend vengono ideati e creati da Richard in persona, ed, in partenza, sono tutti “Single Blended Rum”, seguendo la classificazione di Luca Gargano, ovvero rum composti da distillati provenienti parte da colonna parte da alambicco, in varia percentuale, salvo particolari edizioni che possono essere al 100% figlie di un solo alambicco.  

Gli invecchiamenti avvengono in barrel, selezionati anch’essi da Richard, tipicamente tra ex-bourbon ed ex-sherry, ma anche ex-porto, o ex-zinfadel. L’invecchiamento avviene completamente sul luogo, in tre magazzini, dove la temperatura leggermente più fresca ed il soffitto molto alto permettono una ottima aerazione e condizioni ideali anche per il lungo termine. Tipicamente, i rum Foursquare sono quasi tutti double ageing, per sperimentare ma anche unire i pregi di una tipologia di botte a quelli di un’altra, e far assumere ai rum contorni molto morbidi e setosi, rendendoli ottimi prodotti da degustazione. I rum vengono tutti imbottigliati senza aggiunta di zucchero e se viene indicata un’età si riferisce al rum più giovane nel blend.

Le procedure di imbottigliamento (6 linee) ed etichettatura avvengono anch’esse tutte sul posto: gli impianti sono moderni ed efficienti, con macchine di fabbricazione italiana. Da qui si spedisce rum in tutto il mondo, segmentando la tipologia dei prodotti in base ai mercati.

Tra distilleria, imbottigliamento e confezionamento, lavorano qui una sessantina di persone.

Antoinette mi lascia alle buone mani dei ragazzi dell’area degustazione: mi viene data la libertà di degustare tutto ciò che voglio, ed il paniere comprende anche gli ultimi nati, come Foursquare Hereditas 14 e il nuovo Premise 10YO. Assaggio anche prodotti che non si trovano spesso da noi, come Real McCoy 14 e Doorly’s 12 e 14. Tutti i prodotti hanno il tratto comune dell’estrema piacevolezza di bevuta, e della grande morbidezza, anche se Hereditas 14 mi colpisce per la complessità e la ricchezza, molto sherry-profiled ma ancora incredibilmente fresca (a tratti spunta il lampone, ed anche qualcosa di citrico).

Nella sala dedicata alle degustazioni sono esposte le medaglie ottenute da Foursquare ai concorsi internazionali, e molte foto di famiglia e di avvenimenti importanti: si percepisce estrema trasparenza, orgoglio e dedizione per il proprio lavoro, e grande legame con la propria isola.

A fine degustazione, Antoinette offre gentilmente la possibilità di acquistare qualche bottiglia a prezzo di costo, cosa che non capita sempre.

Esco davvero soddisfatta da questo tour, che ha finalmente completato il ritratto di una persona, una distilleria ed una famiglia già immaginato, ma superando le aspettative.

Torno verso Oistins: il giorno è ancora giovane e mi resta tempo per una lunga passeggiata tra campi, casette, ed il magnifico litorale. Speravo di vedere le tartarughe anche qui, ma forse il periodo non è quello giusto. Le scimmie invece non si fanno pregare, ce ne sono ovunque, come i grossi granchi.

Nei bar locali, la sera, i cocktails sono spesso serviti frozen, ed ho faticato per trovare un buon daiquiry, mentre ovunque si prepara il classico punch con succo di frutta fresca e noce moscata. Il vino, almeno ad Oistins, è piuttosto impraticabile, meglio affidarsi alle bevande locali. I Rum più diffusi nei locali lungo la costa sono, tra i bianchi, E.S.A. Field, Cockspur e Mount Gay e tra gli invecchiati soprattutto Doorly’s, e Mount Gay, talvolta Plantation. In alcuni bar più forniti ho trovato anche una buona selezione di whisky scozzesi. La cucina bajan è, come quella di tutte le Antille, figlia della contaminazione tra Europa, Caraibi e Africa: verdura e frutta sono la base, poi pesce, carne soprattutto di pollo, lunghe marinature, fritture e spezie in quantità. E’ una cucina che parla della latitudine ma soprattutto della storia di queste isole, e si abbina gradevolmente agli aromi intensi di frutta e spezie dei rum locali.

La sera cade presto, vicino all’equatore, e le notti sono chiare vicino al mare: un milione di rumori della natura accompagnano il sonno ed il risveglio, che arriva sempre troppo presto, ma le albe sono magnifiche, soprattutto dall’acqua.

Arriva il giorno prima della partenza, la valigia, partita semivuota, è già organizzata e stracarica di rum e prodotti locali, come mi succede sempre: alle 9.30 ho appuntamento all’ultima distilleria, la più grande di Barbados, un tesoro nascosto agli occhi della folla, dietro alla sua recinzione, a due passi dalla sabbia bianca e dal mare turchese di Brighton Beach, appena fuori Bridgetown: la West Indies Rum Distillery, W.I.R.D., già produttrice di storici marchi come Cockspur e Malibu, oltre che di bulk per altre distribuzioni.

La distilleria, nel 2017, è stata acquisita da Maison Ferrand, famoso produttore francese di Cognac, e creatore del brand Plantation per il rum: Ferrand acquista il rum ai Caraibi e poi lo invecchia nelle cantine della Maison, in Francia. Dal 2017 West Indies e Plantation sono così diventate uno dei fenomeni più seguiti dai rum geek e dagli esperti del settore.

Arrivo puntuale alle 9.30, scortata dall’autista: mi accoglie Andrew Hassell, general manager, che, essendo un giorno di particolare impegno, mi affiderà, per la visita, a Dameain Williams, Brand Ambassador per Plantation Rum, e responsabile accoglienza per W.I.R.D.

Lo stabilimento e gli edifici annessi si trovano su una zona magnifica del litorale, letteralmente con i piedi nella sabbia: qui, un tempo, e presto riaprirà, funzionava il Beach Club della distilleria, e, la notte, le tartarughe marine entrano a deporre le uova tra le mura degli edifici, per sentirsi più protette. Mi racconta che è capitato spesso di dover chiamare la protezione animali per ricondurle al mare.

Dameain mi introduce velocemente alla storia di questa grande distilleria, nata nel 1893 per volontà di George ed Hermann Stade, tedeschi, che si prefigge, fin dall’inizio, di produrre rum di gran qualità, utilizzando, per scelta, solo alambicchi discontinui. Da quel momento, la distilleria ha prodotto e venduto rum a molti imbottigliatori, in sostanza è la mamma di centinaia di marchi, tra cui appunto i recenti Cockspur e Malibu, ed ancora oggi produce circa l’80% del rum proveniente da Barbados.  

Anche a West Indies la materia prima è melassa, per lo più proveniente da Guyana. Quest’ultima viene stoccata in grandi serbatoi da 250hl, prima di essere fermentata in grandi vasche, ne ho contate quattro, a temperatura controllata da computer, ma lasciate scoperte, ed in un luogo semiaperto: infatti la posizione particolare della distilleria, grazie alla brezza marina ed al particolare microclima della costa, permette di contenere gli eccessi di calore, e nel contempo caratterizzare la fermentazione, pur utilizzando ceppi di lieviti appositamente selezionati ed isolati, conservati con cura in un apposito laboratorio dove non è possibile entrare. Il processo dura circa 24 ore, ed il fermentato esce a circa 9% ABV.

Le operazioni di distillazione, un tempo affidate esclusivamente a pot still, alcuni dei quali restano una sorta di mito nell’immaginario di noi appassionati, come il leggendario Rockley Still, oggi in disuso sul prato adiacente la distilleria, insieme ad un suo fratellino minore, oggi può contare su un pot still ex fuoco diretto, più grande dei due sul prato, molto bello, ed azionato saltuariamente, sul mitico multicamera Vulcan Still, rarissimo (ne esiste un altro operante, nel mondo, a Cincinnati), e su due grandi colonne canadesi, una del 1977, che produce l’heavy rum utilizzato per i Plantation, ed una del 1979, che produce il bulk ed il rum utilizzato nella ricetta del Malibu.

I distillati vengono stoccati parte qui, parte in Francia, preso Ferrand, vengono messi in botte tra 65 e 68% ABV, ed affinati in legni sia ex-bourbon che, ora, dal 2017, ex-cognac, che dona ai rum un profilo riconoscibile di frutta gialla ed agrumi. Il bianco viene stoccato in acciaio e poi imbottigliato o spedito in bulk alle aziende che lo richiedono. I magazzini in loco sono due, con 10.000 barili in invecchiamento, per tendere, nei prossimi anni, ai 20.000.

E’ Alexandre Gabriel direttamente che si occupa del blending per la creazione dei nuovi rum: il laboratorio dei blend, insieme ad un fantastico caveau che conserva le ricette originali dei rum di fine 1800, oltre alle mappe della distilleria ed ai libri contabili antichi, è uno dei posti che restano top-secret ed a cui non si può accedere.

Monsieur Gabriel è un grande sperimentatore, e una delle sue volontà è certamente mettere in pratica le antiche ricette, e riportare in funzione i vecchi alambicchi, per ottenere rum di gran qualità e finezza: ho potuto personalmente gustare un esperimento di rum prodotto a partire dall’acqua di mare, dal profilo iodato e vegetale, molto interessante.

L’imbottigliamento di molti rum avviene sul posto, ed anche la distribuzione parte da qui.

W.I.R.D. è certamente, per il profilo attuale, la distilleria più sperimentatrice e meno legata al passato isolano: la potrei definire quasi un “istituto di sperimentazione e selezione”, che sfrutta l’ottima posizione geografica e le local features per creare prodotti unici e originali, forte di un Brand, Plantation, che ha riempito di maggior significato l’eredità storica, e che sta diventando importante tra gli appassionati, proponendo prodotti che partono da un livello popolare, per arrivare ad edizioni di assoluto pregio, ricercate dai collezionisti. Anche i packaging sono accattivanti e pensati per distinguersi dagli altri.

Dameain, Andrew, e tutto il team della distilleria si sono dimostrati adorabili, cortesi e disponibili a rispondere ad ogni mia domanda, nonostante l’iniziale impressione di chiusura: durante il tragitto in distilleria non mi sono mai mancate acqua e attenzioni, ed a fine visita mi è stata regalata da Andrew e Dameain una bottiglia di Plantation XO, con la promessa di rispondere ad ulteriori domande via email, anche a distanza di tempo.

Porto a casa tanta conoscenza e tanti spunti di riflessione, soprattutto da queste ultime due visite: nel mondo del rum, oggi, si dibatte quotidianamente di riconoscimento della indicazione geografica, di valore del terroir, di invecchiamento tropicale o continentale, di additivi, di trasparenza, di sperimentazione e di fermentazione. Barbados è certamente il terreno su cui tutti questi argomenti si stanno incrociando, a volte scontrando, ed è per questo uno dei luoghi del rum più interessanti e vivi da visitare oggi.

La mia valigia mentale è quasi più carica di quella imbarcata, la mattina dopo, alle cinque, mentre la foresta, il mare ed i gruppi sparuti di case escono dall’oscurità e mi salutano, ancora sonnecchianti.

Mi accommiato dall’autista, che ci ha accompagnato per l’ultima volta, e da questa isola cordiale e generosa, in cui un giorno mi piacerebbe tornare.

Sarà un volo lungo verso Milano, accompagnato da tanti appunti e pensieri da risistemare.

Al prossimo viaggio, pirati!

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