Il Barbacarlo di Lino

Ho avuto la fortuna di bere, nella mia vita, già qualche annata di Barbacarlo: altre, scovate con emozione di bambina in posti “che non credevo”, sto accumulandole e custodendole per aprirle a tempo debito. L’ultima, commovente, bevuta il capodanno appena passato: 1985, grande annata, molto calda, vino ancora vivo e vibrante (nonostante il tappo avesse parzialmente ceduto), colore granato scarico, appena una piccolissima traccia di ossidazione, tanto da sembrare ancora pieno di gioventù. Un dito di residuo in fondo alla bottiglia, che ho tenuto, ed il profumo di violetta e frutti neri, anche il giorno dopo, parlavano all’aria intorno, senza mentire. Il vino vero è fatto così.

È stata quella bottiglia a spingermi a rileggere con avidità nuova Mario Soldati, Gino Veronelli, Gianni Brera, ed a chiamare per un appuntamento all’Azienda Agricola Barbacarlo, sulle colline di Broni, ad un tiro di schioppo da dove abito ora: avevo bisogno di sentire quelle stesse storie che avevano incantato loro molto prima. Storie senza età che si perpetuano in quelle bottiglie stregate dal tempo, immagine di una vita dedicata ad un luogo che oggi presta il suo nome, caso più unico che raro qui da noi, alla vigna, al vino ed all’Azienda Agricola, un po’ come si fa in Francia per alcuni Grand Cru.

Quando arrivo nel cortile della nuova Azienda Agricola, Maga Lino (così ci si chiama da queste parti, prima il cognome) il papà del Barbacarlo, 88 anni, è lì che vagola, con la sua immancabile MS tra le dita, ed un’oca che si chiama Virgola, che lo scorta ad ogni passo, un’oca col becco difettoso dalla nascita, che per questo non sta con le altre, ma accanto a lui come un cagnolino fedele: è sulla soglia di quella cantina con Virgola, quando lo incontro. Sembra un po’ spaesato in quel posto così grande e organizzato; l’oca lo segue imperterrita, mentre Giuseppe, il figlio, che si occupa ormai della intera gestione di vino e vigna, mi illustra quello che è Barbacarlo: sei vecchie botti di legno europeo (“è tutto qui” mi dice), ognuna con un nome inciso, in memoria di qualcuno che è stato importante, lì per lì. Nomi umili, ignoti a noi, e nomi grandi, anche, come Gino (Veronelli). Tutti insieme, tutti in ugual modo atleti della stessa impresa, perché Barbacarlo è un luogo da veri agonisti: quattro ettari di “cru borgognotto” in terra d’Oltrepò, zona Porrei, esposizione sud ovest, con una pendenza non umana di circa il 70%, che pure solo l’uomo può lavorare e vendemmiare, coltivati principalmente a Croatina, poi Uva Rara, Ughetta, infine Moradella e Freisa in piccolissima percentuale. Le viti sono sparse e hanno un’età variabile tra i 40 ed i 60 anni: le radici scendono giù profonde, in quel terreno caldo, duro e ricco di scheletro e ghiaia. La produzione è esigua, si parla di 30 quintali di uva ad ettaro, e l’uva non si raccoglie che a piena, anzi pienissima maturazione, in barba alle logiche di mercato: il vino che ne deriva meglio non si potrebbe definire che un’opera di fatica e passione vera, filtrata a peso, goccia a goccia, in vasche di cemento, senza controllo di temperatura né lieviti selezionati a dirigerne la magia: la botte grande, con i suoi anni di lavoro alle spalle, fa il resto, insieme al necessario riposo in bottiglia. A proposito di bottiglia, il vino che vi entra ha una facies diversa per ogni annata: per questo, spesso, non è casuale una naturale rifermentazione, che dona un timbro identificativo e ci parla della vendemmia, senza togliere intensità e fascino. Ogni vendemmia porta con sé il proprio distintivo carattere, ed il cartiglio esplicativo apposto al collo della bottiglia (una volta l’informazione era semplicemente riportata in etichetta), ne descrive i tratti essenziali, come pegno di estrema onestà del vignaiolo verso il cliente finale.

Non si producono, in media, che 7-8000 bottiglie all’anno, senza grossi spazi di manovra per l’export: tutte le operazioni, comprese imbottigliamento ed etichettatura, vengono effettuate sul posto, così come l’apposizione del cartiglio con le informazioni riguardanti la vendemmia e l’annata in generale. Sugli scaffali di una delle stanze della cantina resta ancora qualcosa della 2015, della 2016, poi ci sono la 2017 ed alcune 2018 già pronte, insieme al tavolo con imbottigliatrice ed etichettatrice. Molte bottiglie, a causa della rifermentazione in atto, hanno i tappi fermati dalla gabbietta metallica, altre ancora sono nude, da etichettare e con i cartigli da apporre.

La catena è molto corta, ed anche le vinacce, essendo naturali e particolarmente qualitative, vengono recuperate e conferite per la distillazione ad un altro grande nome della storia enologica italiana, Capovilla: avrò la fortuna di assaggiarne la grappa in una degustazione organizzata in seguito, ascoltando mille aneddoti dalle vive parole di Lino e Giuseppe.

Dalla nuova cantina ci trasferiamo nel cuore antico di Broni, nel cortile di un palazzo di ringhiera, come ve n’erano tanti nelle cittadine lombarde, il secolo scorso. Il sole ci regala le ultime luci dorate di una bella giornata invernale, ed illumina le pietre dell’antica cantina e dell’abitazione. Un tempo era tutto lì: un enorme albero di cachi con qualche frutto ancora appeso, dello stesso colore del sole, guarda dall’alto quello scorcio che ci proietta ad almeno cinquant’anni fa.

Entriamo da una porticina in legno come in un’altra dimensione: una stanza ricolma di bottiglie, oggetti, ricordi e fotografie, come una wunderkammer post litteram, ci accoglie. Al centro, un grande tavolo di legno massiccio e le sue sedie, tante bottiglie sopra, di annate lontane e prossime, alcune già aperte: è un luogo dove il Barbacarlo prima si immagina e poi si impara a conoscerlo da vicino, anzitutto col profumo, che impregna la stanza, insieme all’odore delle sigarette che si susseguono, piuttosto fitte, tra le dita di Lino e Giuseppe.

Ci sediamo comodi in quel salotto contadino e accogliente: mentre gli occhi fuggono verso i mille particolari della stanza, vola il primo bicchiere, ed è un 2015 meraviglioso, di seta color granato, aromi intensi di frutta nera e spezie ci avvolgono come in un morbido lenzuolo. L’annata fu ottima, ed il vino ne è lo specchio.

Lino siede accanto a me: il tono della sua voce è basso, umile, quasi un bisbiglio, mentre racconta i suoi racconti, per lui semplici aneddoti, che però gli fanno luccicare l’angolo degli occhi e tremare quelle mani nodose come un vecchio ramo: il primo è proprio a proposito della volontà di dichiarare l’andamento di una annata sulla bottiglia, per onestà. Eravamo agli inizi degli anni ottanta, ed il giornalista, e grande amico di Lino, Gianni Brera, mosso per altro da un sincero amore per il Barbacarlo, si trovava a cena presso il famoso ristorante Alfredo, a Milano. Com’era sua abitudine, alla cucina meneghina abbina un’annata di Barbacarlo tra quelle disponibili, che pure erano molte. Quella sera, però, il vino lo deluse a tal punto che si sentì in dovere, dal ristorante stesso, di chiamare il Maga dicendogli: “Sai Lino, questa bottiglia (dicendo l’annata) proprio non mi è piaciuta, sono piuttosto deluso, non me lo aspettavo da te”. E prontamente Lino: “Prendi la bottiglia e leggi cosa c’è scritto”. “Dove” “Leggi bene, lì in basso, sull’etichetta” “Annata grama” “Ecco, vedi, non mentirei mai ad un amico”. I due si stimavano profondamente, un figlio legittimo del Po ed un figlio legittimo dell’Oltrepò, uniti dalla passione per le cose vere e da un affetto di ferro.

Gli aneddoti si susseguono, uno all’altro: Lino è un cantastorie con la sigaretta in una mano, ed il bicchiere nell’altra, e forse, dice, è proprio il vino a mantenerlo in salute, pur fumando: paradosso nostrano anziché paradosso francese. Scopro che hanno organizzato, qualche anno fa, presso un’opera caritatevole di Milano, una cena per soli barboni, dove hanno servito, lui ed il figlio, i loro vini, ormai da tutti ricercati, senza badare all’annata, ed al valore, a quelle umili persone, che non avrebbero mai avuto l’opportunità di gustarli altrimenti, noncuranti dell’etichetta e dell’associazione sommelier, che, tempo prima, aveva allontanato da un banco di degustazione un senza tetto desideroso di un goccio del loro vino: la stessa associazione decise poi, per quell’evento, di offrire la propria collaborazione.

Un gesto generoso che suggella, se mai ci fosse bisogno, la loro idea di vino e la loro dimensione di prossimità all’umiltà della terra ed ai ritmi stagioni, sostanza che li guida, vendemmia dopo vendemmia, su quella brusca collina: un concetto, oggi moderno, di terroir e di rispetto ambientale, che li ha fatti entrare nel prestigioso circolo dei produttori “Triple A”, con effetti positivi sulla conoscenza da parte del pubblico, ma anche con qualche difficoltà a supportare l’aumentata domanda, soprattutto da parte dell’estero.

Anche la loro volontà di sfuggire alla viticoltura fatta per interesse, al sistema “commerciale” delle DOC vigente spesso nel nostro paese, alle pastoie legali che li hanno costretti, per avere il nome Barbacarlo su quell’etichetta, ad anni di battaglie contro i mulini a vento, fa parte di questa idea: le dispute sono terminate solo poco tempo fa, con il riconoscimento della zona specifica e della sua propria pertinenza, indicabile in etichetta. Stesse strenue lotte per reimpiantare 2 ettari di vigneto, nel 2014, anno piovoso: quando arrivò il permesso, a causa della pioggia, molte barbatelle si ammalarono e le perdettero. Tutto da rifare l’anno dopo. Ma si va avanti e non si molla: “Mola nò al màs”, gli diceva sempre il suo amico Gioann.

A tal proposito, l’altro storico amico, Gino Veronelli, che dal sistema DOC non era per nulla convinto, anzi sapeva bene che avrebbe reso la vita difficile a molte piccole realtà artigianali, lo difese ancora una volta, come sempre, anche negli ultimi giorni della sua vita: correva l’anno 2003, e fu un’annata eccezionale, che portò ad una maturazione eccellente delle uve, ed ad una produzione ovviamente con eccedenza, tanto che il Ministero volle declassare il Barbacarlo dalla DOC: Lino chiamò piuttosto disperato il buon Veronelli, che pretese di assaggiare quel vino, trovandolo eccellente, tanto che si impose con il Ministero per evitarne il declassamento. Poco dopo Veronelli morì: circa un mese fa ho scovato, in un negozio di paese, un magnum di quell’annata, etichetta a mano in carta bianca, firmata da Gino, all’ultimo giro del suo orologio. Non era in vendita, per ragioni affettive: il proprietario mi confessò di essere amico di entrambi.

I racconti hanno reso il tempo liquido quel pomeriggio, ed i bicchieri, di diverse annate, si sono dati il cambio nelle nostre mani, senza sosta: la generosità e la semplicità di Lino e Giuseppe ci hanno nutrito non solo di parole e buon vino, perché, ad un certo punto, è stato portato in tavola un ottimo salame ed una micca intera di pane, che Lino ha tagliato sino all’ultima fetta per noi, senza risparmiarsi.

Non dimenticherò facilmente quei momenti cosi’ ricchi, e la fortuna di aver ascoltato la voce di un umile gigante dei nostri tempi: è stato in qualche modo un sogno realizzato per me, che mi ero presentata chiedendogli una semplice intervista. La prima domanda però me l’ha fatta lui: “Perché sei venuta qui ad intervistare un vecchio?”. Ed io “Perché sai raccontare le storie: noi giovani ne abbiamo bisogno”.

Questo articolo esce in un momento di grande crisi per l’Oltrepò, giorni bui in cui si apprende che qualche cantina sociale ha adulterato il vino, quasi a riportarci ad un’epoca di vergogna che pensavamo ormai conclusa. Invece si dimentica continuamente la lezione del passato, ahimè: “la storia non è magistra di niente che ci riguardi” direbbe Eugenio Montale.  Forse servirà a poco, ma l’Oltrepò Pavese vero è fatto, invece, di vignaioli che operano con fatica e coscienza profonda del proprio lavoro, così prezioso per la nostra Italia enologica: Lino Maga ed il suo Barbacarlo sono stati un volano enorme per loro e per un territorio che ha bisogno, oggi come non mai, di essere ascoltato, bevuto e raccontato, attraverso le storie di chi lo ha vissuto.

Un grazie speciale a Lino ed a suo figlio Giuseppe per la disponibilità e per il racconto, ed alle mie compagne di viaggio, Lorena Gibin, Daniela Citterio, Francesca Somaschini, Silvia Azzalini per le fotografie “rubate” e per la loro insostituibile presenza.

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