(Piccola scorribanda enologica nella Liguria di Levante)
In questa estate strana, dalle distanze brevi e calcolate, la massima pazzia partorita tra noi ragazze con il vezzo del vino è stata un viaggio in tenda verso la Liguria di Levante.
Assetate di chilometri e con una gran voglia di evadere, ci mettiamo in strada in tre, a bordo di un’auto col finestrino che non si chiude, che strada facendo ci faremo aggiustare da un benzinaio: tra code e caselli bloccati, un’Italia intera è diretta verso il mare, in questo Agosto caldissimo che sa di voglia di libertà.
Direzione Riomaggiore, Cinqueterre, Cantina Possa, dove quel tesoro di Heydi Bonanini ci aspetta per visita, degustazione ed epico giro in vigna sul trenino a cremagliera. Dormiremo tra le vigne di Possaitara, nel suo podere, un regno semplice fatto di vecchie viti, piante di limoni, arnie per il miele, erbe mediterranee: luogo di pace vera, a strapiombo sul mare, con una vista, per chi apprezza, che nessun Hotel di lusso potrà mai eguagliare, spettatrici e protagoniste di un paesaggio fragile, che Heydi, con pochi altri produttori, s’impegna ogni giorno a salvare dal rischio idrogeologico.
Qui tutto è diverso, più lento, più complicato e faticoso: ricostruire muretti a secco, piantare viti, eradicarle, curarle, vendemmiare, cercare di dar senso anche a varietà antiche, già quasi scomparse se non fosse per Heydi ed altri buoni samaritani della terra. La viticoltura qui è prima di tutto agricoltura, nel senso di dar cura ed indirizzo a questa magnifica fragilità. Restare qui è, infine, una forma di resistenza al progressivo spopolamento ed abbrutimento del territorio, che nel giro di un secolo è passato da mille a cento ettari vitati, il resto in preda ad una Natura sempre più matrigna, che ad ogni pioggia si porta via pietre, muretti, viti e persino intere cantine (come successo nel 2018), che la stagione successiva, piccoli uomini, su questo sfondo di rupe e di blu, ricostruiscono a proprie spese, portandosi a spalla ogni pietra, in luoghi dove la meccanizzazione è assolutamente impraticabile, e manutenere una cremagliera che aiuti nella vendemmia su queste coste ripide è già velleità.
Arrivate a Riomaggiore, Heydi ci riceve col gran sorriso di chi non vede l’ora di accoglierci a casa sua: ci aspetta una degustazione nella storica cantina nel centro di Riomaggiore, tra le mura centenarie e fresche di questo “basso” dove si concentra anche l’attività di vinificazione, ed i suoi esperimenti, tra anfore e piccoli legni inusuali, come pero e ciliegio, per l’affinamento del gioiello di famiglia, lo Sciacchetrà.



Se dovessi scegliere un vino emblema di Possa, tra quelli della generosa degustazione che Heydi ci ha offerto (accompagnata in più da deliziose focacce e dolci di paese), sarebbe proprio lo Sciacchetrà, e non la versione vincitrice del premio come vino dolce più buono d’Italia al concorso Vinitaly, affinata in anfora, annata 2018, ma la versione dell’annata precedente, affinata in piccole botti, di quelle che si usano anche per l’aceto balsamico, prese da Renzi, a Modena: botti costosissime che offrono al vino, denso e spesso, una materia porosa e vulnerabile, e gli comunicano in presa diretta la salsedine e gli aromi del territorio e di una cantina scavata nella roccia viva, regalandogli quel tratto “oxy” proprio degli Sciacchetrà alla vecchia maniera. Un vino “eroico” dalla vigna alla bottiglia, prodotto in piccolissima quantità (circa 1100 bottiglie nel 2016). Nel bicchiere è ambra dorata, luminosissima, che si aggrappa alle pareti come miele, e del miele ha una parte della dolcezza, ma tutt’altra complessità: l’acidità e la sapidità ne temperano la natura dolce, ed invitano ad altri piccoli sorsi, che rivelano note di cera, di albicocca candita, quasi di mango, buccia di grossi limoni liguri, ed erbe mediterranee. Finale lunghissimo, tutto giocato sulle note sapide e di tenue ossidazione, che rende l’insieme ancora più fresco e interessante, e ci consegna il perfetto cameo di una vecchia vigna, sospesa su friabili rocce millenarie, tra limoni e rosmarino, di fronte al mare.
Dalla cura maniacale per la materia prima, uve di Bosco per la gran parte, provenienti da piante di circa 50 anni con una resa già bassissima, sulle quale si opera una ulteriore selezione, alla diraspatura a mano, acino per acino, dopo l’appassimento, sino alla messa in botte, tutto parla di tensione verso la miglior vinificazione possibile, ed a spingerla è la volontà di continuità ma anche di futuro: da qui l’adesione al protocollo Triple A, l’esperimento delle anfore, non solo per lo Sciacchetrà, ed il recupero di metodi di vinificazione antichi, ma con uno sguardo aperto verso il domani, i figli, a partire dal suo, il “Principe Jacopo” (nome che ha voluto dare al suo metodo ancestrale) che popoleranno di vita e idee le nuove Cinqueterre del vino.
Perciò, tra i bianchi, Er Giancu e Cinqueterre, complessi e sapidi, il rosso, o meglio U Neigru, ed i rosati, oltre allo Sciacchetrà nelle due tipologie, vinifica anche il “Rinascita”, per me vino del cuore: uno Sciacchetrà Rosso da uve Bonamico e Canaiolo, di grande profondità, che si faceva molto raramente un tempo, ed era considerato un vero e proprio tesoro per le famiglie, segnando la nascita dei figli, ed il Vin dei Vecci, vinificato a partire dal ripasso di un bianco e di un rosso sulle bucce dello Sciacchetrà; d’altro canto, Heydi dedica ai bambini e al futuro molto tempo, considerandolo un grande investimento, con un doposcuola completamente dedicato, per insegnare loro i rudimenti di agricoltura, viticoltura e cantina, tanto che ha imbottigliato il “Vin dei Fanti”, un passito fatto con le loro mani, sin dalla vigna. In un momento in cui l’agricoltura è un mestiere inviso ai nostri giovani ormai, coltivare queste piccole speranze fa un gran bene, e non solo a Riomaggiore.
Salutiamo questa manciata di case sospese nel blu, dopo un bagno rigenerante nel mare Ligure freschetto e salato, tante risate ed una ultima notte scurissima, come quelle di una volta, senza luci artificiali, ma con una luna piena grande come un faro, sorseggiata con la dovuta lentezza dal poggiolo di Possaitara, in mezzo alle viti e ai limoni, insieme allo sciacchetrà di Heydi: entrambi materia densa e scura, di quelle che si appiccicano al fondo del bicchiere e del cuore.

Si riparte, alla volta di Sarzana, dove la terra dei Liguri si congiunge a quella dei Tusci, per far tappa nei pressi dell’antica Lunae, importante colonia e porto romano i cui resti archeologici affiorano abbondanti tra i vigneti e le cave di marmo.
Un altro amico ci aspetta, per una serata insieme, che si allungherà molto piacevolmente tra il suo bar e, il giorno successivo, la visita, tutti insieme, a due produttori: Marco Graziano, appassionato di rum, habitué di rotte caraibiche, ma anche innamorato della sua terra e delle cose buone che essa ha da offrire.
L’indomani ci troviamo con lui per la prima escursione in terra di confine: su questa striscia di territorio tra passato e presente, visitiamo una realtà che ne protegge le radici e ne perpetua la tradizione di accoglienza, quella di un popolo che è tanto aperto verso il mare, quanto racchiuso nei suoi piccoli borghi, che ci stringono per strade di ciottoli come in un abbraccio fuori dal tempo.
Siamo alla cantina Lunae, ad Ortonovo: avevo chiamato una decina di giorni prima per assicurarmi una visita con degustazione dei principali vini, ma, giunti in loco, cambiamo idea, e puntiamo sulla verticale di vermentini, soprattutto per poter degustare quel “Numero Chiuso” di cui ultimamente si parla parecchio in ambiente enologico: Vermentino di punta, a scompigliare le carte in tavola, tra i classici etichetta grigia ed etichetta nera, prodotto in bottiglie numerate, da severa selezione delle migliori uve raccolte in quota collinare, pressate delicatamente, e vinificate separatamente. Il vino affina poi per 28 mesi, di cui la metà in acciaio, e la restante metà in grandi botti di rovere. Un Vermentino fuori dagli schemi, che cerca la pienezza del territorio, pur uscendone, per complessità.
L’azienda, come il suo vino di punta, è un unicum nel luogo: un gran podere ristrutturato, una lobby ampia ed accogliente ed un magnifico giardino, che sotto questo sole infonde frescura, tra alberi, fiori e giochi d’acqua. Accogliente è davvero l’aggettivo che più si addice alla realtà della famiglia Bosoni, che, ormai da cinque generazioni, esprime con i suoi vini lo spirito di Luni, e ne riporta l’anima in etichetta: Lunae, come l’antico porto romano, ad indicare il forte legame con la storia ed il territorio.
L’attenzione quasi “paterna” ai visitatori, ci permette di cambiare sull’istante anche la tipologia di degustazione, senza nessun problema. Il percorso guidato parte dal meraviglioso cortile interno, attorniato dagli edifici un tempo parte del cascinale agricolo, completamente ristrutturati: la pietra rossa ed il marmo risplendono al sole, pregni di quell’annunciata e solida storia di famiglia, che, dal 1966, ha ridato vita e lustro a questi luoghi.
Fiori all’occhiello, quel giardino delle meraviglie che termina dritto in vigna, dove le viti di vermentino sono cariche di bei grappoli nell’ultima fase della loro maturazione, ed il museo che raccoglie le vite di cinque generazioni di agricoltori, diviso nelle quattro stagioni, secondo il flusso delle attività legate alla terra ed alla vigna. Un’azienda che comunica, anche ad una visita senza guida, il grande senso di appartenenza ad un territorio geologicamente variegato, dalla sabbiosa pianura, dove sorgono le viti utilizzate per produrre la celebre “Etichetta Grigia”, alla media e alta collina, terreno di ciottoli e scheletro, che conferiscono ai vermentini più complessi come “Etichetta Nera e “Numero Chiuso” corpo e complessità. Gli ettari sono circa 55, in totale, e godono di un microclima particolare e costante, vera culla per le viti, con le Alpi Apuane a riparare dai venti freddi. Le annate si susseguono così continue e regolari da un punto di vista climatico, con poche eccezioni. Gli impianti, con viti che arrivano ai 30 anni, sono per la maggioranza a Guyot, e conducono le varietà Vermentino, Albarola, Sangiovese, Ciliegiolo, Canaiolo, oltre ad alcuni autoctoni, ad una maturazione calibrata sul prodotto, senza utilizzo di troppa chimica in vigna, ma con un grande occhio alla qualità dei terreni e delle uve. La raccolta si effettua tutta a mano, e le uve provengono da appezzamenti propri oltre a circa 150 conferitori. L’Azienda è dotata della più nuova tecnologia per la vinificazione, che, anche in questo caso, è volta a disegnare un prodotto che narri il territorio nel modo più fedele possibile.
La degustazione ci viene servita in un magnifico cortile interno, sotto il portico, su eleganti tavole, una per gruppo: sulle tovaglie candide spicca la luce dei calici ed il nero delle piccole ardesie sulle quali ci vengono serviti deliziosi assaggi del territorio, in abbinamento ai vini: focaccia con olio locale, crostini con pomodori confit, olive e lardo stuzzicano gli occhi ancor prima del palato, facendoci sentire coccolati come in famiglia.
Ci vengono serviti, uno dopo l’altro, i tre Vermentini di casa: l’atteso “Numero Chiuso” spicca, per intensità e grassezza, sui due “gemelli diversi” Etichetta Grigia ed Etichetta Nera.
Un bianco quasi francese per spalla e acidità, riempie gli occhi con la sua luce di oro carico: dal bicchiere le note intense di frutta tropicale ed erbe mediterranee sono le prime a fuggire verso le narici, ma c’è molto di più da scoprire: fiori di gelsomino, spezie dolci ed un accenno come di cera d’api che diventa a poco a poco resina di pino, via via più intensa, quasi balsamica. Il sorso è altrettanto pieno e complesso, una lunga carrellata di frutta dalla pesca nostrana al mango d’oltreoceano, per arrivare a quella candita, sino alle spezie, ed al finale lungo e balsamico, piacevolmente sorretto da una palpabile salinità, che, nonostante il corpo, fa cercare il secondo sorso.
E’ un vino dallo stile completamente diverso rispetto ai vermentini locali, anche a quelli della stessa Lunae, fortemente voluto da Diego Bosoni, uno dei figli di Paolo, lo stesso che, negli ultimi tempi, presta molta attenzione anche al recupero dei vitigni autoctoni del territorio di Ortonovo, tra i quali spicca una creatura interessante, il Vermentino Nero: vinificato da un anno a questa parte, è un esperimento che abbiamo il piacere di assaggiare come “dulcis in fundo”, offerto dallo stesso Diego, che ci fa l’onore di sedere al nostro tavolo per l’ultima parte della degustazione. Una mente aperta ed uno spirito semplice, Diego, a muovere “buone” idee, come quella del Numero Chiuso e di questo Vermentino Nero che ci cattura sin dal bicchiere: color sangue, spesso e profondo, profuma sottilmente di petali di rosa essiccata, di more di rovo, spezie, soprattutto chiodo di garofano, e di un non so che tra la bacca di ginepro ed il timo. Il sorso è teso ed elegante, dalla bella acidità, con le note di frutti di rovo e macchia mediterranea in bella evidenza, ed un tannino fine e discreto, che prolunga la sensazione di estrema freschezza.
Lunae ha avviato un progetto di grande sensibilità territoriale, che prevede il recupero di vitigni storici come questo, ormai ritenuto estinto, ma ritrovato in alcuni esemplari al confine tra Liguria e Toscana, a Fosdinovo, su suolo argilloso-tufaceo. Il Vermentino Nero viene vinificato in purezza, ed in edizione limitata: la fermentazione avviene in botti di legno da 20 hl e l’affinamento si protrae poi in legno per altri 8 mesi, terminando con un periodo di 12 mesi in cemento, per preservare i tratti freschi e mediterranei del varietale. Un vino che ti vien voglia di bere anche leggermente fresco, d’estate, e che immancabilmente porterò con me, insieme agli altri vini degustati, e ad un paio di liquori, altra chicca prodotta qui, a base di erbe e frutti del giardino, figli della tradizione locale.
Al di là dei tesori liquidi, la sensazione forte e positiva che mi porto via (confermatami sia Heydi Bonanini, che dal buon Andrea Marcesini, che visiterò lo stesso giorno) è quella di una realtà talmente solida, generosa e lungimirante da essere importante volano per un territorio magnifico e variegato, con mille ricchezze nascoste, ma ancora poco conosciuto da un punto di vista enologico e storico: una sorta di megafono culturale, utile anche alle realtà più piccole per far finalmente sentire la propria voce, ed un luogo in cui si arriva accolti come in famiglia, ma si esce consapevoli di essere entrati in un territorio.
Insieme a Marco, chiudiamo in bellezza quest’ultimo giorno della nostra breve avventura, con un’altra realtà d’eccezione, “La Felce”, di Andrea Marcesini, altra Tripla A, sempre in territorio di Ortonovo, ma con caratteristiche di dimensione e terroir totalmente diverse rispetto a Lunae.
Andrea, interpellato all’ultimo, si dimostra di una cortesia e di una disponibilità uniche, ricevendoci nella piena giornata lavorativa della sua piccolissima realtà: sembra proprio che l’accoglienza sia il più importante biglietto da visita delle aziende di questi luoghi.
È vestito in abiti di campagna, la maglietta color cielo dal motto “agricoltori, artigiani, artisti” quando arriviamo: appena prima era nell’orto di famiglia, attività che l’azienda pratica, come anche la frutticoltura e l’apicoltura, sin dai tempi del nonno Renato Marcesini, perché non si sa mai, occorre avere sempre un paracadute nei momenti di crisi, per “pararsi dai mali”, ci spiega, come questo ultimo del Covid -19, e così era anche una volta.
L’azienda nasce, con questi tratti meticci e fortemente caratteristici del territorio, nel primo dopoguerra, ma la produzione di vino inizia ufficialmente negli anni ‘60/’70: allora il loro vino si vendeva sfuso, a damigiane. Poi, nel 1998 arriva il cambio: Renato passa le redini ad Andrea, che, dopo gli studi di agraria, continua il lavoro di viticoltura e orticoltura iniziati dal nonno e fonda l’azienda sotto il nome La Felce, pianta dei boschi tanto amati da Andrea, antica e sempreverde.
Andrea è la svolta, è quello che cambia il linguaggio, si stacca da un paesaggio consueto e mai narrato per farlo capire a tutti, nei nostri tempi moderni: dal 2006 abbraccia in pieno una filosofia totalmente rivolta al naturale, e pure diventa presidente del Consorzio di Tutela dei vini DOC Colli di Luni, Cinque Terre, Colline di Levanto e IGT Liguria di Levante: un presidente di certo non DOC, ma che interpreta e difende in modo diretto e fedele i tratti antichi e fragili di un paesaggio meraviglioso.
La sua viticoltura è quella ragionata, figlia di un territorio e di una storia, legata alla tradizione, con uno sguardo benevolo verso il passato ed un occhio attento ad un futuro che ha sempre più bisogno di ritmi lenti e rispetto della terra. La tecnologia è ridotta al minimo in vigna, come pure in cantina: 6 ettari di viti, da parcelle tutte diverse per suolo ed età, tutte dislocate nei dintorni di Ortonovo: età media delle piante commovente, oltre 50 anni. La storia è tutta lì, per chi la cerca, e sta a dimostrare che si deve sapere bene da dove si proviene e dove si va. Un domani sarà infatti Francesco, suo figlio, che oggi gli dà una mano in vigna ed in cantina, mentre sta terminando gli studi di Agraria, a proseguire il suo lavoro.
Sui suoi terreni Andrea ci guida, senza risparmiarsi, per tutto il pomeriggio, in auto, come fossimo gli ospiti più attesi, come non vedesse l’ora di dirci: ecco questo sono io, e così io faccio le mie cose.
Gli appezzamenti, principalmente da terreni sabbiosi, sono 11, tutti in IGT, tutti diversi, pur se nel raggio di 10km., non coltivati quasi mai in una sola varietà (ci sono Vermentino, Trebbiano, Ruzzese, Malvasia, Massaretta, Canaiolo, Merlot, Barbera, Alicante e persino un centinaio di piante di Chenin!), perché un tempo era così: vera cartina di tornasole di un territorio, riescono a trasmetterlo nel modo più diretto, con vini complessi e polifonici, vini-cibo e vini-energia vitale, costruzioni accurate, solo all’apparenza casuali, che cambiano un anno dopo l’altro, comunicando messaggi sempre diversi ma univoci, ed, infine vini per sottrazione: niente chimica, niente complicazioni, solo la natura, temperata appena da rame e zolfo in vigna, e dalle idee coraggiose e fuori dagli schemi di questo ragazzo degli anni settanta.
Un sistema “buono” nella sua interezza, che ha da poco fatto partire anche un progetto di agricoltura sociale, a favore di alcune strutture per malati psichiatrici: Andrea ha piantato alcune vigne, tra cui la “Monte Dei Frati”, tutta a Vermentino, su arenaria sedimentaria, il terreno più peculiare tra i suoi: sabbia sì, ma sedimentata nei millenni, a dare sapidità ad un’uva classicamente “tenue” nelle durezze. In questa vigna unica, nella quale si pratica, diversamente da tutte le altre, una coltura “monovarietale”, i pazienti delle strutture psichiatriche potranno fare terapia di recupero e reinserimento al lavoro: il vino prodotto si chiamerà proprio “Monte Dei Frati”, una sorta di lieu-dit alla francese, in tutti i sensi.

È già, inaspettatamente, tardo pomeriggio quando rientriamo alla cantina per una indimenticabile degustazione all’ombra degli alberi del giardino di Andrea. Il tempo è passato velocissimo. Il cane Otto, anziano ma dolcissimo, ci fa compagnia, ed a turno gli lanciamo un bastone che va, faticosamente, ma con tutta la gioia di un cucciolo, a recuperare, per ricominciare daccapo il gioco.
Le etichette che Andrea produce e imbottiglia sono otto in tutto, alcune solo nelle migliori annate, come il sedicente vermentino “Nonsempre”. I nomi sono semplici ed evocativi: dai basici “Felce Bianco” e “Felce Rosso”, blend di vari vitigni, come da manifesto, nella meravigliosa bottiglia da litro, che ci porta ad un tempo passato, in cui il vino era vero sostentamento delle famiglie nell’attività quotidiana, quindi doveva esser sincero e ben fatto, ma anche nella giusta quantità, alle piccole perle, come “In Origine” bianco e rosso (una poesia sulle radici, blend di vitigni ovviamente, ottimi con la cucina locale), “Reconteso” (Massaretta e Alicante, vino generoso e nello stesso tempo duttile), “UnBianco”, vino ossidativo dall’ormai rarissima uva di Scimiscià, che evolve sotto flor, con una potenza e delicatezza aromatica uniche; infine il passito “Nonsempre”, un blend di Malvasia, Chenin Blanc, Albarola, Sémillon, grande aromaticità e spalla acida importante.
Tra tutti questi, è l’outsider che mi cattura, il terzo vino cui voglio far spazio nella valigia ideale di questo nostro viaggio: si chiama “Prove Di Trasmissione in O2”, ed è, come dice il nome stesso, una sorta di esperimento per vedere chi ne recepisca il messaggio. Ancora uva di Scimscià, ancora un vino ossidativo, complicato, misterioso e tremendamente affascinante: evolve in solo acciaio per 12 mesi, di cui ben 9 sotto un velo di flor, che trasmettono bene, almeno a me, l’aspetto più ombroso e boschivo di questi luoghi, quello che Andrea in fondo ama. Un vino in cui la parte solare di fiori bianchi, frutta matura e candita, fa posto via via a toni speziati, di terra umida, di funghi e di salmastro. Profondissimo, non calcolato, di grande, direi spiazzante, personalità. Un vino che in fondo gli somiglia, e, all’ombra di questi alberi, mentre Andrea ce lo racconta, con la testa di Otto appoggiata sul mio grembo, sembra espandersi fuori dai nostri bicchieri.
Lo porterò a casa con me: chi sa se ritroverò, in un luogo diverso ed in un altro tempo, la stessa intensità.
Salutiamo Andrea, e il buon Marco, ottimo Cicerone: ci aspetta la strada, che prendiamo con tutta la calma possibile. L’asfalto a quest’ora ha una luce calda e dorata, e la musica ci fa compagnia. Il nastro si riavvolge lentamente, senza scatti, mentre ci avviciniamo alla città e torniamo alla vita consueta: per fortuna con una bella scorta di fotografie, ricordi, e storie in bottiglia cui attingere di tanto in tanto.